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Giovanni, l’infermiere di Pozzuoli che combatte il Coronavirus nella trincea del Cotugno

Giovanni, l’infermiere di Pozzuoli che combatte il Coronavirus nella trincea del Cotugno
  • Pubblicato13 Aprile 2020

POZZUOLI – La cosa che più colpisce di Giovanni è quel sorriso che trasmette fiducia e serenità. Non lo perde mai, nemmeno nei momenti più difficili, anche quando è a contatto con i casi più gravi di Covid ai quali regala sempre una parola di conforto e una carezza. Infermiere di 28 anni di Pozzuoli, da oltre un mese Giovanni Boscritto lotta giorno e notte nella trincea dell’ospedale Cotugno di Napoli dove è arrivato dopo aver rinunciato a un contratto a tempo indeterminato in un ospedale di Bologna. Si, avete letto bene: Giovanni ha rinunciato a un “posto fisso” per trasferirsi a Napoli e combattere nella sua terra il Coronavirus dopo la laurea e una lunga gavetta in giro per l’Italia. «Ad inizio marzo mi chiamò l’azienda dei Colli per propormi un contratto a tempo determinato della durata di 12 mesi, quando tornai a casa capii subito che dovevo restare qui. Infatti, ho ancora casa da svuotare a bologna. Sono stato assegnato al reparto del Pronto soccorso infettivologico del Cotugno, per me è un onore lavorare in questo presidio e aiutare la gente della mia terra» racconta con orgoglio.

IL CONTATTO CON IL COVID – A fine febbraio Giovanni conosce il Covid-19 e le sofferenze ad esso legato: «Incontriamo il primo caso di covid positivo, eravamo tesi ma preparati all’emergenza, formati anticipatamente a tutto ciò che poteva succedere»  Conosce i drammi, le sofferenze dei pazienti che vede morire fino alla decisione di rispondere “si” al richiamo della sua terra. «Sono subito corso, ho sentito il dovere di venire ad aiutare la mia gente. Grazie anche alle esperienze raccolte nelle varie regioni, mi sono potuto mettere al passo con loro. Sono felice di lavorare con i miei colleghi persone dal cuore buono e dalla grande professionalità»

LA SOFFERENZA NEGLI OCCHI – «Il Sars cov2 è un virus subdolo, che provoca una malattia, che ti isola anche emotivamente. -racconta Giovanni – Un paziente positivo viene isolato, riducendo il suo contatto con il mondo e soprattutto con i suoi cari. Il contatto umano in quei giorni di degenza è rappresentato esclusivamente da noi operatori, dai nostri occhi unico dettaglio che trapela dalle tute. I pazienti sono spaventati, noi siamo quell’ancora di umanità che li lega alla realtà e che dà loro la forza e la speranza per superare questa prova inaspettata». Un lavoro che per Giovanni rappresenta una missione, a cui dedica corpo e anima nonostante le insidie e i pericoli a cui lui e tanti suoi colleghi sono esposti «Si ascoltano tante storie, ogni minimo errore ci può esporre al contagio, abbiamo dalla nostra professionalità struttura e dispositivi di protezione, ma non basta: ci vuole un’attenzione maniacale, anche nei dettagli. E quando entri nella camera oltre a quell’attenzione, ci vuole gran cuore, ci vuole voglia di voler aiutare, chi in quel momento è in difficoltà, e lo si può fare chiacchierando o magari con una carezza. Perché -conclude Giovanni- chi sta in quel letto è un nostro fratello o una sorella».