Essere “woke”: l’etica dei fragili

A cura di Annalisa Illiano
Ieri una mia vecchia compagna di scuola, incontrata mentre passeggiavo mi ha chiesto di spiegarle cosa si intende esattamente per woke e da dove derivasse la parola (ho insegnato inglese per tanti anni). Era confusa da quello che leggeva sui sociali e soprattutto dal neo-nato asse politico-culturale italo-americano fermamente disposto contro l’ “ideologia woke”. Devo dire che anche io ho avuto qualche tentennamento, dopo l’apparizione transcontinentale di questa “ideologia” di cui non conoscevo l’esistenza, e mi sono detta che mi doveva essere sfuggito qualcosa se questo tema era tanto importante da eguagliare la questione dei dazi, le tragedie delle guerre in atto, il pericolo che scoppino conflitti di dimensioni maggiori.
Così mi sono fermata a riflettere e a ricostruire il significato di questo termine. La parola “woke” è la forma al passato del verbo “wake” (svegliarsi). Inizialmente, nel contesto afroamericano e poi nei movimenti per i diritti civili negli Stati Uniti, “woke” significava restare “svegli”, cioè attenti e informati sulle questioni sociali e politiche, “consapevoli” delle ingiustizie sociali, in particolare quelle legate al razzismo. Era un invito a non guardare altrove, a non voltarsi dall’altra parte. Con il tempo, il termine si è prestato ad altre battaglie civili: quella contro il sessismo, l’omofobia e ogni forma di discriminazione. Essere woke, oggi, significa “avere gli occhi aperti sulle ingiustizie e scegliere di non restare indifferenti”. Negli ultimi anni, con la legittimazione cinica della “cultura dello scarto” (come denunciava, inascoltato dai potenti, Papa Francesco), la parola “woke” è stata caricata di altri significati: “ingenuità”, “fanatismo ideologico” o, peggio ancora, “ipocrisia”, diventando addirittura oggetto di scherno.
Questo tipo di rovesciamento semantico non è originale: c’è un’ampia tradizione letteraria e filosofica che ridicolizza e sminuisce la bontà attribuendola ai deboli, a coloro che sono destinati a rimanere falliti nella vita perché non riescono a sfruttare il sistema in cui vivono per trarne profitto personale, perché magari pensano prima agli altri che a sé stessi. Quando il cinismo è di moda e il sarcasmo è moneta corrente, chi sceglie di essere buono viene spesso deriso. Nella letteratura, nella filosofia, nella religione, e, oggi, sui social, i personaggi buoni sono spesso descritti come ingenui, ridicoli o addirittura pazzi: il principe Myškin, l’“idiota” di Dostoevskij, buono al punto da sembrare folle in una società corrotta; Candido di Voltaire, preso in giro per la sua fiducia nell’umanità; Don Chisciotte, deriso perché combatte per ideali nobili in un mondo che deride ogni valore; il principe Andrej o Pierre di “Guerra e Pace” di Tolstoj, personaggi puri e quindi additati come ingenui e fuori posto; Gesù stesso, che perdona, ama e accoglie, e per questo viene crocifisso. Tutti loro, in modi e contesti diversi, rappresentano la forza della bontà in un mondo che la interpreta come debolezza, come ostacolo al successo personale e alla conquista del potere. I potenti del mondo insegnano che è meglio essere lupi e predatori, mettere i propri interessi al primo posto, “first”, costi quel che costi.
Niente di originale, quindi, nell’ambivalenza della parola “woke”: si ride di chi lotta per la giustizia, per i diritti, per l’uguaglianza, per un sistema di valori, banalizzando la generosità, la vicinanza umana, l’empatia. Di chi va a tendere una mano a chi sta annegando in mare, di chi guida ambulanze sotto le bombe, di chi mette a rischio la propria vita per documentare guerre, di chi scende in piazza per manifestare contro l’indifferenza e contro i missili che squarciano ospedali. Il sarcasmo dei potenti appare spesso come una forma di bullismo ideologizzata, che molti leggono solo come atteggiamenti “social”, capaci di avere risonanza e veicolare messaggi semplici e di impatto. Ma è molto più di questo: chi deride l’impegno sociale e lo riduce a “moda” o “agenda ideologica”, chi ne fa un insulto, sta attuando una premeditata strategia di screditare le battaglie per i diritti umani, la difesa dei più deboli, per rafforzare i propri privilegi alimentando l’indifferenza delle persone. Perché è nell’interesse del Potere depotenziare e smontare le voci che vogliono un mondo più equo e più giusto.
Papa Francesco diceva che la vera forza è “nelle periferie”, non nei palazzi del potere. E le periferie sono luoghi fisici, i quartieri poveri, le aree escluse dallo sviluppo e dalla ricchezza, e luoghi esistenziali, abitati da chi è solo, malato, emarginato: “Occorre uscire da sé stessi per andare verso le periferie, non solo geografiche, ma anche esistenziali. […]” (Evangelii Gaudium, 2013)
Con il suo costante richiamo alla dignità di ogni essere umano, al rispetto del creato, alla giustizia sociale, Papa Francesco era “woke” — nel senso più profondo e autentico del termine, che qui, con forza rivendico. Perché essere woke è “andare nelle periferie”, è una forma moderna di resistenza morale. E se essere “svegli”, sensibili, attenti agli altri è motivo di scherno, allora deridetemi pure: voglio “uscire da me stessa e andare verso le periferie”; sono “woke”, come lo era Papa Francesco. Come lo è ogni coscienza che rifiuta la cultura dello scarto.